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venerdì 30 agosto 2013

La storia del CSS: Combustibile Solido Secondario

In sintesi: il CSS non è formalmente e sostanzialmente un rifiuto, ma un prodotto trattato e miscelato di diverse sostanze e una parte è anche rifiuto urbano non pericoloso. La legge fissa dei parametri per essere CSS molto restrittivi, ovvero senza la presenza di nessun metallo e con una percentuale di cloro sotto lo 0,1%.
La filiera del CSS è sostenibile sotto il profilo ambientale, innanzitutto in termini di riduzione del consumo di risorse naturali e di materie prime, consentendo di recuperare energia comunque necessaria e prodotta a partire da fonti fossili.
La filiera del CSS è sostenibile sotto il profilo energetico, in quanto il suo utilizzo nei cementifici rappresenta una sostituzione di un combustibile fossile con un combustibile parzialmente rinnovabile.
Infine, la filiera del CSS non solo è sostenibile sotto il profilo economico, ma è addirittura virtuosa.
Qui di seguito il botta e risposta delle parti in parlamento durante la  17ª Legislatura. In rosso i pro-CSS

Legislatura 17ª - Aula - 08/08/2013

Mozione (1-00131)

DE PETRIS, BAROZZINO, CERVELLINI, DE CRISTOFARO, DE PIN, GAMBARO, PETRAGLIA, STEFANO, URAS -

Premesso che:
in data 14 gennaio 2013 è stato presentato alle Commissioni parlamentari competenti lo schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell'autorizzazione integrata ambientale, con termine per la trasmissione del parere, 13 febbraio 2013;
il Senato esprimeva, in data 16 gennaio 2013, parere favorevole dopo la relazione in 13a Commissione permanente (Territorio, ambiente, beni ambientali), del presidente pro tempore D'Alì senza interventi in discussione di alcun componente la Commissione stessa;
la VIII Commissione permanente (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera, in data 11 febbraio 2013, ribaltando l'originaria proposta di parere favorevole, dopo ampia discussione, "ritenuto assolutamente necessario svolgere un approfondimento con appropriate forme di consultazione; valutata la rilevanza delle conseguenze del provvedimento sul funzionamento del sistema dei cementifici e della tutela ambientale e della gestione dei rifiuti; ritenuto indispensabile il coinvolgimento delle Regioni e ritenuto quindi necessario rinviare alla prossima Legislatura l'adozione del provvedimento in questione, esprime parere contrario";

Nella Mozione si confonde lo schema di DPR con i principi del DM, che invece sono nella sostanza molto differenti e completamente diversi: Bene ha fatto la VIII Commissione permanente della Camera in data 11 febbraio 2013 a rinviare l’adozione del provvedimento in questione e non è intenzione di questo Governo riproporre nuovamente il testo del DPR  rinviato. Il DPR in oggetto non entrava nel merito della classificazione del rifiuto trattato, ma interveniva solamente sulla semplificazione della valutazione dell’impatto ambientale negli impianti di trattamento finale, lasciando inalterate le caratteristiche del rifiuto stesso.

in data 14 febbraio 2013 veniva emanato il decreto ministeriale n. 22 che, declassando i combustibili solidi secondari (CSS) da rifiuti a sottoprodotti consente ai cementifici di utilizzare nella produzione di cemento i CSS come combustibili, rischiando così di trasformare i cementifici in inceneritori, ipotesi plausibile tanto è vero che il Ministro dell'ambiente pro tempore di un Governo dimissionario dichiarava a ilfattoquotidiano.it "l'utilizzazione del combustibile secondario dei rifiuti nei cementifici riduce anche il fabbisogno degli inceneritori";

Il Decreto Legge n.22 non declassa i rifiuti in CSS, ma al contrario individua quale sono le caratteristiche qualitative di un combustibile derivante anche da materie seconde per essere utilizzato in sostituzione del carbone. Al governo è da tempo chiaro  che il sistema di gestione dei rifiuti ottimale è, come d’altro canto stabilito dalla direttiva 2008/98/EC del 19 novembre 2008 (recepita nell’ordinamento nazionale), quello che prevede formalmente una chiara gerarchia delle forme della gestione stessa. 
Nell'ordine, quindi:

  • Riduzione a monte dei rifiuti (prevenzione e ecodesign)
  • Riutilizzo
  • Riciclo sotto forma di materia
  • Recupero sotto forma di energia elettrica e/o termica
  • Smaltimento in discarica 

E’ questo lo schema che si vuole seguire ed è per questo che il governo intende ridurre al minimo lo smaltimento dei rifiuti tal quale in tutte le sue forme. 
Il DM n.22, infatti, a differenza del DPR rinviato nella scorsa legislatura, non prevede in nessun modo l’utilizzo dei rifiuti nelle cementerei e nelle centrali termiche, ma il trattamento a freddo dei rifiuti solidi urbani in impianti con tecnologia innovativa,  e, con l’aggiunta di altro materiale, modificati e trasformati in un prodotto che ha caratteristiche migliori del carbone (CSS)
I nuovi impianti tecnologici a freddo permettono di separare e dividere le frazioni putrescibili, le materie pregiate ( alluminio – vetro – metalli ferrosi), tutti gli altri metalli, le sostanze clororate ( il PVC viene tolto con i lettori ottici). 
Nel decreto n. 22 all’art. 7 comma 4 è scritto in maniera perentoria con riferimento a ciascun sottolotto, che il produttore determina, con modalità conformi a quanto indicato dalla norma UNI EN 15359, la classificazione dello stesso sulla base dei parametri e delle classi 1, 2, 3 e relative combinazioni,elencate nella Tabella 1 dell’ Allegato 1. Chi produrrà questo prodotto dovrà quindi sottostare ad un disciplinare di processo e di prodotto certificato da un ente e da un laboratorio terzo accreditato, attraverso un sistema di gestione per la qualità del processo di produzione del CSS-Combustibile finalizzato al monitoraggio e controllo, tramite procedimenti documentati, attraverso il rispetto delle norme UNI EN 15358 ( art. 9 comma 1).
Nemmeno un combustibile tradizionale ( Metano, Carbone, ecc.) ha una norma cosi precisa.

Tale ammissione, provenendo da una fonte così autorevole, è inquietante in quanto i cementifici, industrie insalubri di classe 1, hanno limiti di legge da rispettare molto più permissivi rispetto a quelli degli inceneritori, il che comporta di conseguenza una maggiore capacità inquinante a parità di utilizzo;secondo l'Associazione dei medici per l'ambiente, nonostante l'utilizzo del CSS da parte dei cementifici comporti una riduzione di alcune emissioni di gas serra, gli svantaggi per l'ambiente sarebbero comunque enormi.

Una cementeria che coincenerisce CSS (sia rifiuto che End of waste) dal 2005 è soggetta ad un limite di ossidi di Azoto pari a 800 mg/Nm3 (500 per impianti nuovi) sono limiti imposti per il coincenerimento dei rifiuti nei forni da cemento dal D.Lgsvo 133/05 che vale anche per l’utilizzo di CSS End of waste. 
Inoltre la Dir 75/2010/CE, di prossimo recepimento in Italia (il termine è scaduto a Febbraio 2013) imporrà un limite di 500 mg/Nm3 per tutte le cementerie (nuove o esistenti). Tutte le sperimentazioni in atto dimostrano che la sostituzione del carbone produce benefici ambientali significative e non solo sulla evidente e naturale diminuzione complessiva di CO2, ma anche di altri inquinanti come è emerso da questi studi:   
“L’utilizzo di combustibili alternativi nei forni da cemento consente di ridurre le emissioni di NOx rispetto alla marcia a combustibili fossili. Il beneficio quantificato dalla commissione EUROPEA (2003) è stimato pari a 0,36 kgNOx /t CDR utilizzato” (Genon, Brizio, 2008)
“I dati del Dipartimento Provinciale dell’ARPA di Cuneo mettono in relazione una diminuzione degli NOx nelle emissioni con l’utilizzo di combustibile da rifiuto in alternativa al combustibile fossile” (Dott. Fantino , provincia di Cuneo Atti FORUM PA 2009)
Nel 2011 uno studio condotto dal Network for Business Sustanability (Canada) in collaborazione con il Politecnico di Bari (facoltà di ingegneria meccanica) ha analizzato decine di database universitari, con l’obiettivo di condurre una review di tutte le pubblicazioni internazionali relative all’utilizzo di combustibili alternativi in cementeria 
Sono stati giudicati rilevanti ai fini dello studio più di 110 articoli tecnici, rapporti di associazioni internazionali di ricerca e organizzazioni governative, pubblicazioni di ricercatori universitari, LCA Analisys etc.   La maggior parte dei documenti analizzati conclude che  le emissioni dai camini di CO2, NOx, SO2, metalli, diossine e furani sono generalmente inferiori rispetto alla marcia a combustibili fossili (Network Business for Sustainability and Politecnjico di Bari, 2011).
Ricordo che per produrre il cemento occorre che il clinker sia portato, per diversi secondi, ad una temperatura di almeno 1400° centigradi, per questa ragione di chimica “naturale”, non è tecnicamente possibile la formazione di diossine.
Non solo, la classificazione del CSS tiene conto di tre parametri obbligatori, riconosciuti strategici per importanza ambientale, tecnologica e prestazionale/economica, quali PCI (parametro commerciale), Cl ( Cloro -parametro di processo) e Hg ( Mercurio -parametro ambientale), come meglio specificati nella Tabella 1. (da UNI EN 15359)
A titolo di esempio, le caratteristiche di classificazione del CSS nella categoria 1 previsti dalla normativa sono: potere calorico maggiore di 25.000 KJ; percentuale di Cloro inferiore all’O,2% e percentuale di Mercurio inferiore all’ 0,02%, oltre all’assenza di qualsiasi metallo. Queste caratteristiche, oltre al processo produttivo caratteristico del cemento, permette di essere certi  dell’innocuità dell’utilizzo del CSS in sostituzione del Carbone.

Gerarchia del ciclo dei rifiuti - Fonte: Elaborazioni NE Nomisma Energia
Ricorda la stessa Associazione che un cementificio, "impianto altamente inquinante con e senza l'uso dei rifiuti come combustibile, produce almeno il triplo di CO2 rispetto a un inceneritore classico". Inoltre i limiti di emissioni di inquinanti per questi impianti sono maggiori rispetto a quelli degli inceneritori. Identici per ciò che riguarda i microinquinanti, come la diossina. Ma il decreto Clini "semplificherebbe l'iter per la combustione dei rifiuti nei cementifici", prosegue l'Associazione dei medici per l'ambiente, e visto che "la quantità di diossine è proporzionale alla quantità di rifiuti bruciati", i microinquinanti emessi dai cementifici potrebbero essere "maggiori rispetto a quelli degli inceneritori" Il Ministro sostiene che con l'emanazione del decreto si diminuiranno le emissioni di anidride carbonica di 2.700.000 tonnellate l'anno pari al 25 per cento delle emissioni di combustione del settore cemento. In realtà accomunando i rifiuti alle biomasse, la loro emissione di anidride carbonica non viene conteggiata come tale;
i cementifici generano un devastante impatto ambientale spesso difficilmente confinabile in quanto il nanoparticolato, ad esempio, può viaggiare per distanze notevolissime sospinto dai venti. Il nanoparticolato è la frontiera ultima della scienza e della ricerca in ambito medico, tanto che quella parte della ricerca, spesso sovvenzionata dagli stessi colossi energivori e di incenerimento rifiuti, tende a minimizzare gli effetti derivanti dalle micropolveri emesse dalla combustione anche ad altissime temperature;

Gestione dei rifiuti in Italia al 2020 - Fonte: Simulazione NE Nomisma Energia su dati Ispra
La destinazione di CSS in cementeria per recupero materia ed energia è una delle Best Available Technologies consigliata dalla Comunità europea, usata nei diversi paesi membri europei con percentuali di sostituzione calorica di molto superiore a quella italiana, nonostante l’imbarazzante superiorità del nostro paese in termini di produzione cemento e assegnazione procedure di infrazione nei rifiuti.
Si tratta inoltre di una prassi che evidentemente , da  dati europei, non compete con la corretta gestione dei rifiuti e l’applicazione della gerarchia in ambito di loro gestione, poiché le ottime performances in ambito di gestione dei rifiuti degli Stati membri ai vertici per sostituzione calorica con rifiuti in cementeria sono di esempio agli altri nel miglioramento delle proprie prestazioni.
Si ricorda in più che la direttiva europea stessa 2008/98/CE, da noi recepita con decreto legislativo 205/2010, riporta articolo 184-ter “cessazione della qualifica di rifiuto” e rimanda, in assenza di regolamentazione europea, a possibilità che lo stato membro valuti emanazioni di propri strumenti regolatori per flussi specifici. Ciò è stato eseguito per il CSS.

inoltre considerato che:
la fretta con cui è stato varato da un Governo dimissionario il decreto, propedeutico al decreto del Presidente della Repubblica che completa le misure atte a dare il via libera alle misure su cui la Camera si era già espressa con parere contrario, sembra evidenziare il vero obiettivo, e cioè risolvere i gravi problemi che alcune grandi città italiane si trovano ad affrontare nello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, peggiorando nel contempo la qualità dell'ambiente, i pericoli per la salute pubblica a vantaggio del settore cementifero. «L'uso come combustibile in centrali, cementifici o anche termovalorizzatori può essere una strada da seguire - spiegava il ministro Clini - per risolvere il problema dei rifiuti, per valorizzare energicamente i rifiuti e per uscire fuori da un circuito nel quale la malavita organizzata ha avuto un ruolo molto importante. Il nostro obiettivo è quello di far uscire i rifiuti dal ciclo ordinario per portarli in un ciclo industriale, qualunque sia: raccolta differenziata, recupero di energia o recupero di materiali»;
tale modo di operare porta ad ignorare e a disattendere le disposizioni europee sul recupero della materia secondo le quali sono gli interventi finalizzati alla raccolta differenziata quelli prioritari e non l'uso di metodologie distruttive che ignorano altre direttive come la 96/62/CE sulle polveri sottili la non applicazione della quale è costata recentemente all'Italia la condanna da parte della Corte di giustizia del 19 dicembre 2012,
Fonte: Elaborazioni NE Nomisma Energia

Con l’applicazione del D.M n. 22 è ampiamente superato non solo il concetto di “termovalorizzatore” seppure con recupero di energia, ma anche quello del CDR (Combustibile da Rifiuti) che, presentando caratteristiche qualitative nettamente inferiori a quelle previste per il CSS, era giustamente considerato ancora un rifiuto e quindi imponeva anche a chi volesse servirsene come combustibile di sottostare alla specifica normativa di settore in campo autorizzativo.
Non si tratta di una mera questione nominalistica, ma di una vera e propria rivoluzione: finalmente è possibile utilizzare in piena sicurezza e in impianti termici esistenti (quindi niente “nuovi camini” dedicati) un combustibile dalle caratteristiche ben definite e controllate, contribuendo al fabbisogno energetico del Paese e uscendo definitivamente dalla nozione di “smaltimento”.
In questo modo l’Italia, incrementando la raccolta differenziata e il riciclo di materia ma anche sfruttando appieno le potenzialità del CSS, potrà allinearsi con i paesi europei più avanzati sul piano della tutela ambientale, azzerando tendenzialmente il ricorso alla discarica. D’altronde il gap maggiore del nostro Paese è proprio nello sfruttamento energetico dei rifiuti, laddove nazioni come l’Olanda hanno da anni un tasso di sostituzione dei combustibili fossili tradizionali ad esempio nei cementifici pari al 98%, contro l’attuale 8% dell’Italia. 
In molte Regioni d'Italia il conferimento in discarica dei rifiuti urbani "tal quali" è ancora il sistema di smaltimento più utilizzato, nonostante il divieto esplicito delle direttive europee e delle norme nazionali. 
Il nostro obiettivo, coerentemente con le direttive europee,  è quello di valorizzare una parte dei rifiuti come risorsa. L'uso del CSS come combustibile in alternativa all’inquinante carbone in centrali, cementifici o anche termovalorizzatori esistenti, e' la migliore integrazione del recupero  della "risorsa"  rifiuti  : a valle della raccolta differenziata ed al netto del recupero di materia completa il ciclo industriale della valorizzazione dei rifiuti, e, insieme con la raccolta differenziata di qualità, può "tagliare l'erba sotto i piedi" alla malavita organizzata, che tutto vuole tranne il recupero e la valorizzazione del rifiuto nei cicli industriali,  come materia e come risorsa energetica, come è stato sempre ben evidenziato nei rapporti annuali della LegAmbiente
Fonte: Elaborazioni NE Nomisma Energia su dati Eurostat ed Ispra

impegna il Governo:
a non procedere alla pubblicazione del decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell'autorizzazione integrata ambientale; ad abrogare il decreto n. 22 del 14 febbraio 2013; a rinviare alle nuove Camere, formatesi con il rinnovo della Legislatura, il testo dello schema di decreto in oggetto, così come indicato nel parere espresso dalla Camera dei deputati dell'11 febbraio 2013.

Bilancio di massa del ciclo di produzione del CSS - Fonte: Elaborazioni NE Nomisma Energia su dati Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare



giovedì 15 agosto 2013

AGRICOLTURA NEL MONDO di Gianni Tamino

Premessa

L’agricoltura è una tecnica nata oltre 10.000 anni fa in grado di garantire alle popolazioni umane più cibo a parità di territorio. In precedenza i raccoglitori-cacciatori dovevano utilizzare un’area molto ampia per trovare bacche, frutti, radici e qualche animale da cacciare in quantità sufficiente da sfamare una tribù nomade di piccole dimensioni. Questa pratica non permetteva agli esseri umani, già presenti in tutto il Pianeta, di superare la dimensione di qualche milione di abitanti; l’agricoltura farà crescere questo numero nel corso dei millenni fino a centinaia di milioni, prima della rivoluzione industriale.
L’origine  dell’agricoltura  va  collocata  indipendentemente  in  più  aree  della  Terra:  anzitutto  la Mezzaluna fertile (cioè l’area mediorientale compresa tra Iran, Turchia orientale e Palestina), e poi l’India, la Cina, la Mesoamerica (Messico e America centrale) e le Ande (e forse altre regioni, come l’Etiopia, il Sahel, l’area sud orientale del Nord America, l’Amazzonia, la Nuova Guinea).

L’agricoltura industriale e la “rivoluzione verde”

Dopo la rivoluzione industriale, si è cercato sia di aumentare la superficie coltivata, conquistando nuove terre, sia di aumentarne la resa produttiva per ettaro, impiegando altre fonti di energia, soprattutto fossile, oltre quella solare (fotosintesi) e animale (trazione). La “rivoluzione verde”, come è stata chiamata l’industrializzazione dell’agricoltura avvenuta il secolo scorso, ha comportato oltre ad un incremento di produttività anche un notevole aumento dei consumi di acqua e di energia, non di origine solare, ma fornita dai combustibili fossili sotto forma di fertilizzanti, pesticidi, irrigazione e trasporti, alimentati da idrocarburi. Secondo Giampietro e Pimentel (1993) la “rivoluzione verde” ha aumentato in media di 50 volte il flusso di energia rispetto all’agricoltura tradizionale e nel sistema alimentare degli Stati Uniti sono necessarie fino a 10 calorie di energia fossile per produrre una caloria di cibo consegnato al consumatore. Ciò significa che il sistema alimentare statunitense consuma dieci volte più energia di quanta ne produca sotto forma di cibo o, se si vuole, che utilizza molta più energia fossile di quella che deriva dalla radiazione solare. Ma i maggiori consumi di energia e acqua riguardano la produzione di prodotti animali, soprattutto negli allevamenti intensivi, dove gli animali sono alimentati con mangimi a base di soia e mais, spesso OGM. I mangimi impiegati per ottenere una porzione di carne corrispondono ad una quantità di cereali e legumi sufficienti per alimentare 8-10 persone. Se tutta l’umanità volesse consumare la stessa quantità di carne pro capite degli Stati Uniti o dell’Europa, occorrerebbe avere a disposizione una superficie doppia o tripla di quella del pianeta Terra, da adibire tutta a pascolo e a coltivazioni di cereali.
Non si deve credere, però, che l’incremento di cibo ottenuto nel secolo scorso grazie alla “rivoluzione verde”, abbia risolto i problemi della fame o del sottosviluppo. Già nel 1981 Le Monde Diplomatique nel suo Dossier n. 8 “Ricchezza e Fame” notava che “la rivoluzione verde e l’applicazione di modelli industriali di sfruttamento della terra erodono le basi di sussistenza autonoma di milioni di contadini, costringendoli ad emigrare verso le nuove megalopoli del terzo mondo”, e si chiedeva “ è la premessa di una nuova rivoluzione industriale o il perpetuarsi, sotto nuove forme, del sottosviluppo?”
Dal 1960, quando ha incominciato a diffondersi la rivoluzione verde, la produzione di cereali nel mondo è aumentata di 3 volte, mentre la popolazione mondiale è cresciuta poco più di 2 volte, e la disponibilità di alimenti per persona è cresciuta del 24%. Ma nel 1960 si stimava che - in tutto il mondo - ci fossero 80 milioni di persone che soffrivano la fame, mentre nel 2006 sono diventate
880 milioni e nel 2009 gli affamati nel mondo hanno superato il miliardo, secondo i dati della FAO.
Fino al 1960 la maggioranza dei paesi era autosufficiente nella produzione di alimenti per i propri
popoli, tranne alcune regioni dell'Africa con grandi problemi climatici, oggi, il 70% dei paesi
dell'emisfero sud sono importatori di alimenti.
Dunque il cibo non manca, ma è distribuito in modo non equo: se un miliardo di persone soffre la fame, altrettante consumano molto più del necessario, andando incontro a problemi di obesità e malattie metaboliche legate all’eccessivo consumo di cibo, soprattutto di origine animale.
Come afferma Vandana Shiva: “La maggiore resa dei prodotti agricoli industriali si basa sul furto del cibo, ai danni delle altre specie e dei poveri rurali del Terzo mondo. E questo spiega perché da una parte si producono e si commerciano più cereali a scala globale, e dall’altra cresce nel Terzo mondo il numero delle persone che hanno fame. Sul mercato globale, i mercati hanno più merci da scambiare, perché il cibo è stato rubato ai poveri e alla natura”.

Tipi di agricoltura

Attualmente le diverse modalità di agricoltura presenti nelle varie parti del mondo possono essere riassunte in tre tipi: l’agricoltura commerciale, l’agricoltura di sussistenza e l’agricoltura di piantagione.
Se la produzione agricola è destinata al consumo diretto, familiare o comunque locale, si ha un'agricoltura di sostentamento o di sussistenza, condotta con tecniche tradizionali e non molto produttiva. Quando, invece, la produzione è destinata al mercato si ha un'agricoltura commerciale, il cui fine è produrre per vendere e massimizzare i profitti.
L’agricoltura commerciale, fondata su tecniche avanzate e di tipo industriale, è presente soprattutto nelle parti ricche e industrializzate del mondo. I proprietari terrieri producono vari prodotti (soprattutto cereali e soia) a costi tendenzialmente bassi e con basso utilizzo di mano d’opera. L’agricoltura di sussistenza è presente soprattutto nel Sud povero del mondo, dove i contadini hanno poca terra, non hanno macchine per lavorarla e producono solo quanto basta per la loro famiglia; in questo tipo di agricoltura, che coinvolge l’intera famiglia, l’agricoltore e i suoi famigliari consumano direttamente quanto producono. Si tratta sostanzialmente di un’economia chiusa e chi la pratica vive in una situazione di equilibrio precario: basta infatti una calamità naturale come una siccità prolungata, piogge eccessive, un’invasione di cavallette perché l’equilibrio si spezzi e se il raccolto va perso è la carestia, la fame.

L’agricoltura di piantagione è anch’essa presente nel Sud del mondo, ma per produrre prodotti tropicali molto usati nei paesi ricchi (caffè, cacao, banane). È moderna e ricca, ma i guadagni non sono dei contadini, ma delle grandi imprese, spesso multinazionali, che hanno la terra e che praticano una monocoltura intensiva su vasti spazi. I prodotti sono destinati ai mercati d'esportazione, perpetuando così un legame commerciale di tipo coloniale. Come afferma Emrys Jones (Enciclopedia delle Scienze Sociali, Treccani) all’origine “si tratta comunque di una forma di agricoltura praticata esclusivamente nelle zone tropicali e su vasta scala, che comporta un certo trattamento del prodotto. Il suo carattere 'intrusivo' dipende dal fatto che essa viene organizzata da un'autorità straniera e implica l'assoggettamento della popolazione indigena: il controllo, da parte degli occidentali, delle società tribali.”
Questo sistema agricolo nasconde gravi rischi per i paesi che lo praticano: anzitutto la monocoltura impoverisce i suoli, crea dipendenza nei confronti dei fertilizzanti di sintesi ed accelera i processi di erosione, in particolare in ambienti fragili quali gli ambienti tropicali. Inoltre le multinazionali sottraggono i terreni migliori alle comunità di villaggio, che praticano un'agricoltura di sussistenza, e tendono ad allargare la loro frontiera agricola in misura direttamente proporzionale alle richieste del mercato ed alla caduta in fertilità dei suoli.
L'agricoltura nei paesi del terzo mondo è spesso caratterizzata da una economia a più facce, dove l'agricoltura di sussistenza si contrappone all’agricoltura di piantagione e di mercato, organizzata in forma di monocoltura speculativa, dove la piccola proprietà deve confrontarsi con la grande proprietà terriera e la produzione interna è minacciata dai prodotti importati. La presenza, in uno stesso paese, di due sistemi agricoli così diversi quali la piantagione e l'agricoltura di sussistenza innesca pericolose conflittualità, a causa delle quali le aziende agricole familiari sono sempre più in difficoltà. Le immense proprietà, eredità della conquista coloniale, sono sfruttate al di sotto delle loro potenzialità da proprietari che hanno a disposizione un'abbondante manodopera a basso costo.
Spesso i contadini "senza terra" sono costretti, per necessità, ad indebitarsi ed alla fine si trovano obbligati a lavorare per numerosi anni senza salario: rinasce così una nuova forma di schiavitù, la "schiavitù per debito".
Oltre e all’interno dei tre principali tipi di agricoltura distinguiamo anche forme di coltivazione basate o sulla monocoltura o sulla policoltura. Nel primo caso la specializzazione colturale è estrema, su vasti spazi domina la coltivazione di una sola specie, solitamente praticata in maniera estensiva. Nel secondo caso invece, anche nell’ambito di una stessa azienda, si riscontra una varietà di colture più o meno forte. I paesaggi policolturali danno inoltre origine alle colture promiscue nel caso in cui su un appezzamento di terreno coesistano due o più specie diverse; un tipico esempio di agricoltura promiscua è dato dalla tradizionale agricoltura mediterranea.
Un’altra distinzione va fatta tra agricoltura intensiva ed estensiva. L'agricoltura intensiva tende a sfruttare al massimo la fertilità dei suoli ed ha come fine le alte rese per ettaro. Nell'agricoltura estensiva le rese per ettaro sono modeste e gli incrementi di produzione sono sostenuti dal continuo aumento delle aree coltivate.
Vanno poi considerate le diverse forme di organizzazione della proprietà fondiaria. Una prima distinzione può essere fatta fra le terre di proprietà privata, presenti nelle economie di mercato, e quelle di proprietà collettiva a struttura tribale o comunitaria presenti in numerosi paesi del terzo mondo.

La produzione agricola

La produzione mondiale di cereali (Tilman et al., Nature, 2002) tra il 1960 e il 2000 è sempre cresciuta, ma a partire dal 1980 questa crescita è divenuta più lenta fino a stabilizzarsi nell’ultimo decennio, mentre il consumo di fertilizzanti azotati e di acqua è cresciuto costantemente come la produzione e l’importazione di pesticidi. Ciò significa che per mantenere costante la produzione agricola si consuma sempre più prodotti chimici di origine fossile (fertilizzanti, pesticidi e combustibili per irrigazione e trasporti). Non stupisce dunque che l’andamento dei prezzi dei cereali segua quello del petrolio, con gravi problemi collegati alle impennate dovute alla crisi economica in atto e alle speculazioni tramite i contratti “futures” sui cereali stessi (cioè acquistando ora per avere i cereali fra vari mesi, sperando nell’aumento del loro valore); questo tipo di contratti è cresciuto esponenzialmente negli ultimi 15 anni. Così si è avuta un’impennata dei prezzi tra il 2007 e il 2008, seguita da una repentina caduta e successivi aumenti e diminuzioni, che hanno reso incerto sia il reddito degli agricoltori che il prezzo finale dei prodotti derivati. In particolare il recente aumento del costo dei cereali, che ha fatto lievitare il prezzo del pane, ha innescato la rivolta in Egitto.
Negli ultimi anni la produzione di cereali è passata (in milioni di tonnellate, sulla base dei dati FAO e del Grain Market Report) da 2.241 nel periodo 2008/2009, a 2.224 nel 2009/2010, per passare a 2.256 2010/2011: in pratica è rimasta costante.
Per avere un confronto con il passato si può ricordare che la produzione è stata (sempre in milioni di tonnellate), 932 nel 1961 (all’inizio della rivoluzione verde) e 2.244 nel 2005, più o meno i valori riscontrati negli anni successivi. Analogamente la produzione del solo frumento tra il 2004 e il 2009 è stata rispettivamente di 633, 629, 606, 607, 683, 682 milioni di tonnellate, mentre nel 1961 era di 223 milioni di tonnellate.
In Italia, nel periodo tra il 1999 e il 2009, il frumento ha avuto produzioni oscillanti tra un minimo nel 2003 e un massimo nel 2008 (rispettivamente 6,2 e 8,9 milioni di tonnellate), partendo da 7,3 nel 1999, per tornare a 6,3 nel 2009.
Le prospettive per il futuro non sono rose, infatti la Coldiretti riportava nel 2009, sulla base di dati ONU, che un quarto della produzione alimentare mondiale potrebbe andar perso entro il 2050 per l'impatto combinato del cambiamento climatico, degrado dei suoli, scarsità di acqua e specie infestanti. Va inoltre ricordato che, secondo la FAO, il 36% di tutti i cereali prodotti al mondo viene impiegato per nutrire gli animali da carne e da latte, con differenze che vanno dal 4% in India, al 25% in Cina, al 65% negli Stati Uniti. Un ettaro coltivato a soia produce 1.800 chili di proteine vegetali, lo stesso terreno adibito a pascolo e allevamento produce appena 60 chili di proteine animali. In Italia oltre il 95% del mais prodotto serve a produrre mangimi.

Ruolo delle multinazionali

Per capire il ruolo delle multinazionali, di cui si è già accennato a proposito dei diversi tipi di agricoltura, vale la pena di fare il caso della più importante di queste aziende, la Monsanto. Si tratta di un’industria statunitense che si è affermata un secolo fa come industria chimica, e, dopo la seconda guerra mondiale, ha messo a profitto tale esperienza producendo defolianti (l’agente “orange”), utilizzati nella guerra in Vietnam. Finita la guerra, ha riciclato la tecnologia bellica in tecnologia agricola ed ha iniziato a produrre diserbanti e pesticidi in genere. Il business agricolo era così conveniente (grazie alla “Rivoluzione Verde”), che acquisisce le industrie sementiere per creare un unico comparto agro-chimico-sementiero. Negli anni ’80 del secolo scorso acquisisce anche le aziende biotecnologiche e realizza sementi OGM brevettate, resistenti ai propri prodotti chimici. Così il ciclo è chiuso e il diritto dei popoli ad utilizzare le proprie sementi e prodursi il proprio cibo, viene subordinato agli interessi e ai profitti della multinazionale.
Gli OGM (o piante transgeniche) sono l’ultimo capitolo della rivoluzione verde, partita con la chimica ed approdata alle manipolazioni genetiche delle piante. Molte ricerche hanno evidenziato rischi per l’ambiente e per la salute derivati dall’utilizzo di OGM, ma la lobby delle aziende che producono organismi transgenici hanno adottato strategie di propaganda indirizzate a nascondere o sopprimere la verità, utilizzando in modo scorretto fonti d'informazione che ispirano fiducia e diffondendo un'informazione distorta e non obiettiva con l'intento di cambiare l'opinione pubblica e far sì che i legislatori favoriscano l'interesse dell'industria. Non è affatto vero, come qualche volta si afferma, che l'alternativa alle coltivazioni transgeniche è l’uso di pesticidi. Anzi uno dei prodotti agricoli transgenici più diffusi è la soia che è stata modificata geneticamente dalla Monsanto per essere resistente ad una maggiore quantità del proprio pesticida “roundup” (ad oggi oltre l’80% delle piante transgeniche coltivate sono tolleranti ad un erbicida). Le multinazionali biotecnologiche vogliono far credere che gli OGM salveranno le popolazioni dalla fame. Peccato che in Argentina nel 2002 in piena crisi da default, mentre i bambini morivano di fame, le multinazionali esportavano in Europa la soia transgenica prodotta in quel paese, per farne mangimi.
Ma ancor più pesante può essere il condizionamento attuato dalle aziende biotecnologiche grazie alle norme brevettuali. Con il termine “brevetto biotecnologico” si intende la protezione commerciale sia di un organismo geneticamente modificato, che delle tecniche per ottenerlo e riprodurlo, ma anche di geni utilizzati per ottenere il nuovo organismo. In tal modo tutti i paesi più ricchi del pianeta possono, grazie alle loro tecnologie e alle norme sui brevetti impadronirsi del patrimonio genetico di tutti gli organismi del pianeta. Le multinazionali biotecnologiche stanno brevettando geni di piante utilizzate nella medicina e nell’agricoltura tradizionali, senza coinvolgere i popoli che per secoli hanno utilizzato queste piante: siamo di fronte ad una vera azione di “biopirateria” dei geni, che dovrebbero essere patrimonio collettivo dell'umanità.
Se si pensa che tre piante (riso, frumento e mais) rappresentano oltre il 50% della produzione agricola mondiale, qualora una multinazionale riuscisse a brevettare queste tre piante, potrebbe avere un potere di controllo e di ricatto non solo economico ma anche politico su tutto il pianeta. La Monsanto sta già controllando il mercato del mais e sta cercando di brevettare piante di riso e di frumento, mentre oltre il 50% di tutti i brevetti concessi negli USA appartengono a tre aziende (Monsanto, DuPont e Syngenta).

Agricoltura e lavoro

La meccanizzazione dell’agricoltura ha provocato nei paesi industrializzati una forte riduzione degli occupati, passati da circa 117 a 48 milioni. Nei paesi meno sviluppati, invece, dove la modernizzazione è meno diffusa e maggiore è la crescita demografica, il numero di addetti è raddoppiato (da circa 700 milioni a 1,3 miliardi).
Nei paesi poveri le attività agricole impiegano la maggior parte della popolazione attiva (l’85% nell’Africa sub-sahariana), che pratica soprattutto un’agricoltura tradizionale di sussistenza, destinata a soddisfare il fabbisogno alimentare delle famiglie contadine.
Nei paesi più sviluppati l’agricoltura occupa una piccola percentuale di popolazione attiva (dall’1 al 5%) e non costituisce la principale fonte di reddito. L’agricoltura di sussistenza è scomparsa ed esiste solo un’agricoltura di mercato, in cui le coltivazioni sono realizzate da aziende agricole che vendono i propri prodotti sui mercati nazionali e mondiali. Le colture sono organizzate, come già detto, in base a modelli industriali: le aziende producono grandi quantità di una o di poche piante agricole utilizzando molti macchinari, prodotti chimici, sofisticati sistemi di irrigazione.
In Italia all’inizio del secolo scorso la situazione era simile a quella descritta per l’agricoltura di sussistenza: su 33 milioni di abitanti, gli addetti all’agricoltura rappresentavano il 44% della popolazione attiva. Ancora nel 1940, in conseguenza della politica autarchica, nel mezzogiorno gli addetti all’agricoltura erano più del 60%. Nell’ultimo dopoguerra in tutta Italia gli occupati in agricoltura rappresentavano il 42% della popolazione attiva e nel ’60 erano ancora il 29%, mentre nel 1971 erano scesi al 17%.
Nell’ultimo decennio l’occupazione in agricoltura (compresi silvicoltura e pesca) era rispettivamente del 4,9% nel 1999 e del 3,9% nel 2009 (INEA, rapporto sullo stato dell’agricoltura 2010), con netta prevalenza di occupati al sud e isole (poco meno della metà degli 874.000 occupati); tuttavia a questi vanno aggiunti gli stagionali (raramente in regola, emersi in parte solo recentemente, con l’utilizzo dei voucher) sia italiani, ma soprattutto stranieri: L’ISTAT calcola che gli irregolari ammontino a oltre il 35% del totale degli addetti del settore.

Problemi sociali e ambientali posti da un’agricoltura globalizzata

Il settore agricolo sta oggi vivendo, a causa della crisi, una fase di intensa pressione, che si sta traducendo in una progressiva compressione dei redditi, che in alcuni settori sta mettendo a rischio la continuità di ampie fasce di imprenditorialità agricola. La fotografia scattata dall’Eurostat segnala per il 2009 una diminuzione dei redditi agricoli per unità lavorativa pari all’11,6% rispetto all’anno precedente. Riduzioni che si sono rivelate sensibili soprattutto in alcuni contesti come Ungheria (-32,2%), Italia (-20,6%), Germania (-21%) e Francia (-19%).
La politica agricola comunitaria (PAC) ha favorito le grandi aziende, soprattutto del nord Europa, penalizzando l’Italia, caratterizzata da piccole aziende con pochi addetti; solo 1/3 delle nostre aziende presenta una redditività reale soddisfacente in quanto uguale o superiore alle remunerazioni ottenibili in occupazioni alternative.
L’Italia, inoltre, dipende sempre più dall’importazione di prodotti agricoli; ad esempio per il grano duro, di cui è importante produttrice, dipende dall’estero per un terzo dei circa 6 milioni di tonnellate consumate; ciò dipende anche dalla volatilità dei prezzi, che, dopo improvvise crescite (che spingono i nostri agricoltori ad aumentare la produzione), ha portato a valori poco remunerativi, favorendo le importazioni. Siamo poi forti importatori di prodotti orticoli e di frutta, soprattutto “fuori stagione” rispetto all’Italia. Siamo, invece, esportatori di vino, ma in caso di crisi delle produzioni agricole mondiali, sarà difficile riconvertire questo settore, per produrre alimenti essenziali, da consumare vicino al luogo di produzione.
La futura PAC, che partirà dal 2013, dovrebbe essere più attenta ai problemi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica; sulla base dei discorsi ufficiali del Commissario europeo, la nuova PAC dovrà essere pensata “per rispondere alle diverse agricolture che contraddistinguono il territorio allargato dell’Unione e dovrà conseguire gli obiettivi legati alla sicurezza alimentare, il cambiamento climatico, la protezione dei suoli e delle risorse naturali, la crescita economica delle aree rurali” (Cioloş, 2010). Ma l’esperienza insegna che a Bruxelles hanno sempre privilegiato l’agricoltura del nord Europa rispetto a quella mediterranea e la quantità rispetto alla qualità. Nello scenario dell’agricoltura europea globalizzata, quella italiana mostra sempre più difficoltà, a fronte di una concorrenza estera (soprattutto extracomunitaria) sempre più agguerrita ed organizzata. Anche per questo l’impresa agraria italiana, secondo uno studio di Mazzarino e Pagella (2003), è tanto più competitiva quanto maggiormente riesce a contribuire al successo del prodotto finale, attraverso il controllo della qualità, e quanto più vantaggiosamente riesce a stabilire un rapporto diretto con il cliente, che diviene centrale per il successo dell’azienda. Tutto ciò sta favorendo un’agricoltura sostenibile come quella biologica (di cui l’Italia è il primo produttore in Europa) e la filiera corta, attraverso la vendita diretta in azienda, i mercatini locali e il rapporto con i Gruppi d’acquisto solidale (GAS).

Movimenti contadini per il diritto alla terra e alla sovranità alimentare

Anche alla luce della attuale difficoltà del processo di globalizzazione, evidenziato dalla crisi finanziaria e dal blocco degli accordi in sede WTO, è necessario pensare ad un futuro per l’agricoltura e per l’alimentazione del pianeta basati sulla sovranità alimentare, sulla difesa del suolo e sul pieno utilizzo della biodiversità disponibile. Il suolo agricolo e il cibo vanno considerati beni comuni, che devono essere gestiti direttamente dalle comunità interessate. Ma anche il sapere, compresi i saperi contadini, sono beni comuni da difendere e da mantenere all’interno delle comunità.
Sempre più spesso i contadini che praticano un’agricoltura di sussistenza in un’economia di villaggio, soprattutto nel sud del mondo, vengono espropriati delle proprie terre, per effetto di un processo di accaparramento (o land grabbing). In Africa centrale, ad esempio, notabili locali si fanno dare, spesso con l’inganno, terreni che appartenevano da sempre ai villaggi agricoli, dove la gente si sfamava coltivando miglio e arachidi e allevando capre, per poi rivendere queste terre a multinazionali o a paesi stranieri, sia per estrarre materie prime che per produrre biocarburanti, mentre le popolazioni locali restano senza mezzi di sussistenza, costrette a migrare. L’accaparramento massiccio di terre, praticato da stati terzi o da interessi privati per acquisire cibo, energia, risorse minerarie e ambientali, ma anche a fini speculativi o per interessi geopolitici, viola i diritti umani dei produttori di cibo (comunità locali, indigene, contadine, pastorali o di pescatori) poiché limita la loro possibilità di accesso alle risorse naturali, ne condiziona le scelte in materia di produzione e aggrava le disuguaglianze di accesso e controllo alla terra per le donne.
Il secondo aspetto, conseguenza dell’agricoltura globalizzata, è la perdita di sovranità alimentare. Secondo Via Campesina la sovranità alimentare è “il diritto dei popoli a definire le proprie politiche agricole e alimentari. Il diritto di ogni nazione a mantenere e sviluppare le sue capacità di produrre alimenti di base, rispettando le diversità culturali e produttive. Il diritto a produrre il proprio cibo sul proprio territorio”. Il concetto di sovranità alimentare contiene quello di sicurezza alimentare, inteso come la “possibilità/diritto di ogni Paese a produrre una quantità sufficiente di alimenti, rendendoli accessibili a tutti”. Ma la sovranità alimentare è qualcosa di più, perché aggiunge il diritto a quale cibo, a come lo si produce, dove e per chi. In altri termini “La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a definire le proprie strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo, che garantiscano a loro volta il diritto all’alimentazione di tutta la popolazione”.
Sulla difesa del proprio territorio, di fronte ad un crescente accaparramento delle terre, e sul principio della sovranità alimentare, sono sorti nel mondo vari movimenti di difesa dei contadini. Il movimento, o meglio la rete dei movimenti contadini più famosa è la già citata Via Campesina, presente in tutto il mondo. Come scriveva Giuseppina Ciuffreda su Alias (30/12/2000) “Via Campesina nasce per coordinare la resistenza dei movimenti contadini di Europa, Asia, e Africa. A Seattle nel 1999, Via Campesina chiede che l’agricoltura sia fuori dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), il guardiano del libero mercato, perché non si possono affamare i popoli, e rivedica i “diritti dei contadini” che aveva presentato a Roma, nel vertice mondiale della Fao del 1996. Per sfuggire ai debiti e sopravvivere, l’autosufficienza alimentare garantita dalle economie di sussistenza con il ritorno a metodi di coltivare tradizionali organici, è la strategia più realistica per i due miliardi di contadini e popoli tribali del Terzo Mondo”. Oggi la battaglia di Via Campesina è incentrata sulla difesa della sovranità alimentare di ciascun popolo e contro l’accaparramento delle terre. Oltre Via Campesina, che è una rete mondiale, si battono per questi obiettivi i “Sem terra” in Brasile, il movimento Navdanya, promosso da Vandana Shiva, in India, e molti altri in varie parti del pianeta.
Partendo dal presupposto che l’agricoltura contadina a conduzione familiare, cui appartiene la maggior parte degli agricoltori del mondo, è quella che meglio assolve alla funzione di nutrire il pianeta, generare sviluppo nelle aree rurali e garantire la conservazione delle risorse naturali a beneficio delle generazioni future, i movimenti contadini chiedono di porre immediatamente fine a qualsiasi appropriazione di terre in corso o futura, con lo slogan: “Contadini del mondo contro l’accaparramento delle terre: terra a chi la lavora e nutre il mondo”.
Ma la sovranità alimentare non è un problema che riguardo solo il Sud del mondo: anche da noi la cosiddetta “rivoluzione verde” ha trasformato l’agricoltura e il territorio, rendendo sempre più difficile l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, mentre la speculazione edilizia e recentemente la produzione di energia da biomasse e l’utilizzo del fotovoltaico sui campi, sta riducendo drasticamente la superficie agricola utilizzabile.
Ogni Paese, compreso il nostro, dovrebbe riportare l’agricoltura, con modelli sostenibili e utilizzando la biodiversità, alla produzione di cibo in grado di soddisfare le esigenze alimentari locali, delle comunità. Riappropriarci del controllo della produzione agricola, cioè della sovranità alimentare, è anche il miglior modo per favorire l’indipendenza e la sovranità alimentare degli altri popoli, a partire da quelli sfruttati del sud del mondo, costretti a produrre cibo per noi, attraverso l’agricoltura di piantagione.
Consumare prioritariamente prodotti agricoli del proprio territorio, valorizzando le varietà locali, ridurre i consumi di prodotti di origine animale, eliminando i mangimi OGM, ma anche favorire la diffusione di orti collettivi e l’autogestione dei consumi, è il modo migliore per rifiutare un’iniqua globalizzazione, che non solo trasforma in merce ogni conoscenza ed ogni bene comune, ma sta minando le basi stesse degli equilibri ambientali, indispensabili per ogni essere vivente, uomo compreso.

L’Europa deve usare l’acqua in modo più efficiente


L’Europa deve raddoppiare gli sforzi per migliorare l’efficienza idrica se non vuole indebolire la sua economia, questo è quanto emerge da un nuovo rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (AEA). L’uso inefficiente dell’acqua produce un forte impatto sulle risorse necessarie per gli ecosistemi e le persone, entrambi elementi vitali per la produttività e la sicurezza europea.

 
Il rapporto “Verso un uso efficiente delle risorse idriche in Europaen” dell'Agenzia europea dell’ambiente (AEA) prende in considerazione l’aspetto della gestione integrata dell’acqua, iniziando da una migliore attuazione della legislazione esistente.
“Le risorse idriche sono oltremodo sfruttate in molte parti d’Europa e la situazione sta peggiorando”, ha affermato il direttore esecutivo dell’AEA Jacqueline McGlade.
“L’agricoltura, la produzione di energia, l’industria, le scorte pubbliche di acqua e gli ecosistemi sono tutti importanti, ma tutti in gara per aggiudicarsi questa risorsa limitata. Visto che il  cambiamento climatico ha reso più difficile prevedere la disponibilità futura di acqua, ora diventa ancora più importante che l’Europa utilizzi questa risorsa in modo più efficiente e guardando al benessere di tutti i suoi utenti. Le risorse idriche dovrebbero essere gestite con la stessa efficienza impiegata per gli altri beni naturali posseduti dagli Stati”.
Le carenze d’acqua hanno gravi conseguenze sulle economie che dipendono dall’agricoltura e dall’industria. In alcune parti d’Europa, la penuria idrica ha persino portato a ridurre la disponibilità di acqua potabile. La diminuzione dell’acqua produce effetti indiretti anche sull’economia, diversi fenomeni quali: la diminuzione della portata dei fiumi, l’abbassamento del livello dell’acqua nei laghi e nelle falde acquifere, la scomparsa di aree paludose possono avere effetti distruttivi sui sistemi naturali e di conseguenza gravare sulla produttività economica.
In alcune parti d’Europa la competizione per l’approvvigionamento idrico è in continua crescita. Nell’Unione europea l’agricoltura usa circa un quarto dell’acqua che dovrebbe servire all’ambiente naturale, questo dato può raggiungere l’80% nell’Europa meridionale. Inoltre, un quinto dell’acqua utilizzata in Europa è destinata alla rete pubblica di fornitura idrica -mentre più di un quarto è consumata per tirare l'acqua della toilette. Per quanto riguarda gli impianti idroelettrici, questi possono cambiare la struttura naturale e il flusso di fiumi e laghi, con conseguenze serie per gli ecosistemi.
L’agricoltura è uno dei settori in cui è possibile migliorare l’efficienza idrica, basti pensare a quanta  acqua è sprecata nell’irrigazione dei raccolti. Alcune stime calcolano che, in Europa, all’incirca un quarto dell’acqua estratta per l’irrigazione potrebbe essere risparmiata soltanto cambiando il tipo di tubatura o di condutture. Anche le scorte di acqua pubblica possono essere gestite in modo più razionale, visto che in alcuni Stati membri dell’UE  il 50% dell’acqua potabile viene inutilmente sprecata.
Secondo il rapporto, l’uso inefficiente dell’acqua causa anche un consumo più elevato di energia, con costi ambientali e finanziari aggiuntivi. Mentre l’energia necessaria a pompare e a trasformare l’acqua dolce in potabile generalmente è di circa 0,6 kWh/m3, la dissalazione di acqua marina provoca un aumento di circa 4 kWh/m3. In alcuni paesi europei le tecnologie di dissalazione sono particolarmente utilizzate, ne è un chiaro esempio la Spagna, che si colloca tra i principali produttori di acqua desalinizzata a livello globale.
Inoltre, nel rapporto si sottolinea che sull’uso dell’acqua le autorità competenti dovrebbero definire degli obiettivi chiari, sostenibili e in linea con l’ambiente. Tali obiettivi dovrebbero diversificarsi in base alle risorse disponibili e allo stesso tempo garantire che l'ambiente naturale abbia abbastanza acqua per funzionare. Bisogna prendere in considerazione l’idea di un’economia che cresca senza un corrispettivo aumento dell’impatto ambientale (“disaccoppiamento”), in modo che la crescente produttività economica non porti ad un uso più elevato di acqua e a maggiori danni ambientali.
Storicamente, i prezzi dell'acqua in Europa hanno raramente rispecchiato il vero costo finanziario e della sua fornitura, né tantomeno il costo economico per l’ambiente. Ciò ha causato inquinamento e scarsità d’acqua, gravando l’ambiente e la società di costi aggiuntivi. Un esempio comune è rappresentato dai cittadini che spesso devono pagare il costo del trattamento dell’acqua potabile contaminata dall’agricoltura o dall’industria. Attribuire un giusto prezzo all’acqua può incentivare un uso più efficiente della risorsa stessa e un miglioramento delle innovazioni tecnologiche. L’uso efficace di tasse, sussidi, meccanismi di mercato, modelli di tariffazione e altri strumenti economici possono anche contribuire a bilanciare le diverse richieste di acqua.
Prossimamente, “Il piano d’azione per salvaguardare le acque europee”, pubblicato dalla Commissione europea, traccerà la strada da percorrere per la legislazione in questo settore. Nel corso del 2012, l’AEA pubblicherà una serie di rapporti su questioni legate all’acqua, individuando le sfide e le opportunità in questo settore.
 
Tratto da www.eea.europa.eu/

giovedì 8 agosto 2013

L' Oceano Glaciale Artico più vulnerabile ai cambiamenti indotti dall'uomo dell'Oceano Antartico

Newswise - Il team del professor Helmuth Thomas della Dalhousie University (Oceanografía) ha trovato prove che suggeriscono che l'Oceano Artico è più vulnerabile ai cambiamenti indotti dall'uomo che l'Oceano Antartico. Dopo aver confrontato i siti in entrambi gli oceani, hanno trovato il sito Artico ad essere più acido, più caldo durante i mesi estivi, e hanno un minor numero di sostanze nutritive. Tali disparità rappresentano le differenze di vulnerabilità. I risultati sono stati pubblicati in Natura Scienza Reports .
Gli oceani polari sono sensibili all'aumento di temperatura globale e aumentando le concentrazioni di anidride carbonica atmosferica (CO2). Gli impatti dei cambiamenti climatici dovrebbero essere particolarmente sentiti nelle regioni coperte dai ghiacci. Fino a questo progetto, l'Artico e oceani meridionali rimasero sotto-studiato su scala annuale rispetto ad altri mari, con la maggior parte delle osservazioni limitate al periodo estivo privo di ghiaccio e le stagioni autunnali.
"Grazie a questa ricerca, ora meglio comprendiamo l'interazione di vari clima e dei driver biogeochimici nel controllo del pH dell'oceano e lo stato di saturazione del carbonato nelle regioni polari," dice il Dott. Helmuth Thomas. "Clima e condizioni biogeochimici rendere l'Artico un ecosistema marino più vulnerabili dell'ecosistema antartico, con conseguenze potenzialmente gravi per le popolazioni che vivono sulla costa artica. "
Il team ha confrontato due gruppi di dati ad alta precisione di cicli annuali completi per siti negli oceani Artico e Antartico (siti di Amundsen Gulf e Prydz Bay, rispettivamente). Essi hanno scoperto che il sito Artico sperimentato maggiore riscaldamento stagionale (10 vs 3 gradi Celsius), e per rinfrescare (da 3 vs 2 unità di salinità), ha avuto l'alcalinità inferiore (2220 vs 2320 mmol / kg), e più basso pH estate (8.15 vs 8.5) , rispetto al sito antartico.
Il sistema di carbonio artico ha mostrato cambiamenti stagionali più piccoli del sistema antartico. Il team ritiene che il problema sia dovuto all'eccesso di nutrienti di superficie in Antartide che possono contribuire a ridurre il grado di acidificazione degli oceani in quella zona e che quindi il sistema Artico può essere più vulnerabili alle attese future variazioni del pH dell'oceano e lo stato di saturazione del carbonato.
Alcune specie di conchiglie formano carbonato e giocano un ruolo cruciale nella catena alimentare polare e sono rilevanti per l'approvvigionamento alimentare umana. Il team si aspetta cambiamenti di pH e di saturazione di carbonato ed avere conseguenze pregiudizievoli per il carbonato usato dalle conchiglie e quindi potenzialmente approvvigionamento alimentare umano. Il team si aspetta di vedere questi effetti decenni prima nelle regioni artiche popolate che nelle regioni disabitate dell'Antartide.

Il ghiaccio marino artico fa questo ogni anno.

venerdì 2 agosto 2013

Una migliore gestione dei rifiuti urbani ridurrà le emissioni di gas a effetto serra

  • Nel 2020 si prevede un aumento della quantità di rifiuti urbani del 25 % rispetto al 2005.
  • Una maggiore valorizzazione dei rifiuti e il dirottamento dei rifiuti dalle discariche rivestono un ruolo fondamentale nel combattere gli impatti ambientali esercitati dai crescenti volumi di rifiuti.
  • Grazie al maggiore utilizzo del riciclaggio e dell'incenerimento con recupero di energia, si stima che le emissioni nette di gas a effetto serra derivanti dalla gestione dei rifiuti urbani subiranno un calo considerevole entro il 2020.
  • Limitare o evitare la crescita dei volumi di rifiuti ridurrebbe ulteriormente le emissioni di gas serra generate dal settore dei rifiuti e garantirebbe ulteriori benefici per la società e l'ambiente. 

Volumi di rifiuti in crescita

 Nel 1995 ogni cittadino europeo ha prodotto in media 460 kg di rifiuti urbani. Questa quantità è aumentata fino a 520 kg pro capite nel 2004 ed entro il 2020 si prevede un ulteriore accrescimento fino a 680 kg pro capite. In totale, questo corrisponde a un aumento di quasi il 50 % in 25 anni. Questa previsione di crescita continua dei volumi di rifiuti è principalmente dovuta a un presunto aumento sostenuto dei consumi privati finali (ossia ad una crescita media annua entro il 2020 del 2 % nell'UE‑15 e del 4 % nell'UE‑12 (CE 2006)) e al proseguimento delle tendenze attuali nei modelli di consumo. Tuttavia, come illustrato nella Figura 1, esistono notevoli differenze tra gli Stati membri dell'UE‑15 ( 1 ) e quelli dell'UE‑12 ( 2 ). Mentre un cittadino dell'UE‑15 ha generato in media, nel 2004, 570 kg di rifiuti, un cittadino dell'UE‑12 ne ha prodotti solo 335 kg. Ciononostante, poiché nell'UE‑12 le economie sono in pieno sviluppo e i modelli di consumo sono in fase di evoluzione, i volumi di rifiuti subiranno probabilmente un aumento nei prossimi 15 anni, raggiungendo i livelli attuali dell'UE‑15. Guardando al futuro, entro il 2020 si prevede una crescita dei volumi di rifiuti urbani del 22 % nell'UE‑15 e del 50 % nell'UE‑12. Nell'intero periodo, oltre l'80% dei rifiuti urbani totali viene prodotto nell'UE‑15. Se volessimo spargere sul suolo tutti i rifiuti urbani dell'UE prodotti nel 2020 (ossia circa 340 milioni di tonnellate), i  rifiuti ricoprirebbero un'area equivalente alla superficie del Lussemburgo con uno spessore di 30 cm oppure di Malta con uno spessore di 2,5 m!
Questi risultati suggeriscono che gli sforzi tesi a prevenire la produzione di rifiuti dovrebbero essere notevolmente intensificati. Specialmente se si vuole raggiungere l'obiettivo del Sesto programma di azione ambientale di ridurre sensibilmente il volume dei rifiuti prodotti. 

Aumento della valorizzazione e del dirottamento dei rifiuti dalle discariche

Storicamente lo smaltimento dei rifiuti attraverso la messa in discarica è stato il metodo di trattamento dei rifiuti urbani più diffuso; tuttavia, negli ultimi due decenni si è osservato un ricorso notevolmente inferiore a tale metodo. Nel 2004 è stato messo a discarica il 47 % di tutti i rifiuti urbani dell'UE (vedi Figura 1). Questa percentuale è destinata a calare ulteriormente entro il 2020 a circa il 35 %. Si prevede che il riciclaggio e altre operazioni di riciclo dei materiali aumenteranno entro il 2020, dall'attuale 36 %, a circa il 42 %. Infine, l'incenerimento è stato utilizzato nel 2004 per il 17 % dei rifiuti urbani ed entro il 2020 subirà un probabile aumento raggiungendo il 25 % circa.
Le tendenze passate e quelle previste per il futuro sono in parte il risultato di politiche dedicate, mirate ad accrescere il riciclaggio e il recupero dei rifiuti da imballaggio (ad es. la direttiva sugli imballaggi del 1994) e ad evitare l'accumulo di rifiuti urbani biodegradabili nelle discariche (ad es. la direttiva relativa alle discariche di rifiuti del 1999). Nel complesso, s stima un ulteriore calo della quantità di rifiuti urbani messi in discarica; il che riflette gli sforzi compiuti a livello nazionale e a livello europeo per raggiungere, tra l'altro, gli obiettivi issati dal Sesto programma di azione ambientale. Una pubblicazione dell'AEA (AEA, 2007) illustra i modelli di approccio verso la gestione dei rifiuti da parte degli Stati membri, in particolare nel contesto della direttiva relativa alle discariche di rifiuti.

Calo delle emissioni nette di gas ad effetto serra prodotte dalla gestione dei rifiuti urbani

Nel 2005 le emissioni di gas ad effetto serra derivanti dalla  gestione dei rifiuti costituivano il 2 % delle emissioni totali dell'Unione europea.  Le emissioni di metano, uno dei sei gas ad effetto serra controllati dal protocollo di Kyoto, sono legate in particolare all'agricoltura (specialmente al bestiame) e alle operazioni di smaltimento dei rifiuti. La direttiva UE relativa alle discariche di rifiuti può pertanto aiutare a raggiungere gli obiettivi fissati dall'UE riguardanti la riduzione delle emissioni di gas a effetto.
serra, ad esempio attraverso il recupero del metano e il dirottamento dei rifiuti urbani biodegradabili dalle discariche. Un'ulteriore interfaccia tra gestione dei rifiuti e politiche sul cambiamento climatico è il consumo energetico (che genera emissioni di gas a effetto serra) nella raccolta, nel trattamento e nell'utilizzo dei rifiuti per la fabbricazione di prodotti. Secondo le proiezioni, le emissioni nette di gas serra derivanti dalla gestione dei rifiuti urbani dovrebbero scendere dal livello massimo di circa 55 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti l'anno, della fine degli anni ottanta, a 10 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti entro il 2020 (Figura 2). Questo è dovuto a due sviluppi distinti. Da un lato, la quantità di rifiuti conferita alle strutture di gestione continuerà a crescere, secondo le proiezioni, con l'aumento della produzione pro capite di rifiuti e l'ulteriore miglioramento della loro raccolta. Questo determinerà un aumento delle emissioni dirette di gas serra generate dal settore della gestione dei rifiuti. La messa in discarica costituirà il 60 % del totale nel 2020, mentre il riciclaggio e l'incenerimento rappresenteranno circa il 20 % ciascuno. Dall'altro lato, il riciclaggio e all'incenerimento aumenteranno. Questi rappresenteranno un risparmio (o emissioni di gas serra evitate) che andranno a controbilanciare le emissioni dirette. Entro il 2020 il 75 % delle emissioni evitate totali sarà dovuto al riciclaggio e quasi il 25 % all'incenerimento. Pertanto, le proiezioni suggeriscono nel complesso che una migliore gestione dei rifiuti urbani ridurrà le emissioni di gas a effetto serra in Europa, rendendo le pressioni ambientali indipendenti dalla crescita economica, come richiesto dal Sesto programma di azione ambientale. Inoltre, grazie all'atteso ulteriore sviluppo del riciclaggio e al maggiore utilizzo dei rifiuti come risorse, le proiezioni sembrano indicare il raggiungimento dell'obiettivo a lungo termine di evoluzione verso una società di riciclaggio, come si prefigge la strategia tematica di prevenzione e riciclo dei rifiuti. 
Le proiezioni utilizzate in questo studio sottintendono una crescita della capacità di gestione dei rifiuti adeguata alla domanda. Tuttavia, se gli investimenti in una nuova e migliorata capacità di gestione non riusciranno a tenere il passo con le crescenti quantità di rifiuti, le emissioni nette di gas serra potrebbero continuare ad essere superiori a causa di una gestione inefficiente. 

Ulteriori benefici ottenibili limitando o evitando la crescita dei volumi di rifiuti

Anche se le proiezioni indicano che le emissioni nette di gas serra diminuiranno nonostante la crescita dei volumi di rifiuti, le azioni volte a limitare o ad evitare la crescita prevista nella quantità di rifiuti contribuiranno a ridurre ulteriormente le emissioni nette di gas serra prodotte dal settore della gestione dei rifiuti. Si stima che la raccolta e il trasporto di rifiuti, i quali sono strettamente legati ai volumi di rifiuti, rappresenteranno meno del 5 % delle emissioni dirette di gas serra nel settore dei rifiuti, principalmente per via delle brevi distanze che il trasporto dei rifiuti urbani normalmente richiede. Tuttavia, questa cifra rappresenta il 40 % delle emissioni nette nel 2020.Il contenimento della quantità di rifiuti prodotti apporterà anche altri benefici, quali una riduzione dei costi della gestione dei rifiuti, nonché un minore inquinamento atmosferico (con polveri e ossidi di azoto) e un minore inquinamento acustico legato alla raccolta e al trasporto dei rifiuti. In caso contrario, i costi di gestione dei rifiuti potrebbero aumentare considerevolmente con l'aumento dei volumi. 
Il costo della raccolta e del trattamento dei rifiuti è particolarmente elevato e la produzione di rifiuti è per definizione una perdita di risorse. 
Concludendo, l'Europa non può adagiarsi di fronte alla continua crescita di rifiuti, la quale riflette i nostri attuali modelli di consumo e di produzione insostenibili, poiché questo potrebbe compromettere nel lungo termine i progressi compiuti nel settore della gestione dei rifiuti.

Tratto da Agenzia Europea dell'Ambiente