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martedì 1 ottobre 2013

L’ODISSEA DI UN GRANDE CERRO

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Questa brutta foto è tutto ciò che resta del più grande e più bel cerro d’Italia. Al momento della sua scoperta, superava in dimensioni quello che oggi è il nr uno in campo nazionale, quello di Sant’Angelo di Amatrice,che all’epoca era di m. 6,82 di circonferenza. Le dimensioni di questo erano: 6,88 la circonferenza, 24 l’altezza e ben 34 il diametro di chioma. Si trovava all’interno del vasto parco della Scuola di Equitazione militare, a Montelibretti, in provincia di Roma. Le mie visite a quest’albero hanno come segnato i gradi della mia carriera militare.
1988. Dando inizio alla stesura del mio libro “Lazio, sessanta alberi da salvare”, mi reco alla Scuola. Personaggi famosi vi prestano ancora servizio, come i pluridecorati olimpici, i fratelli Raimondo e Piero d’Inzeo. L’essermi presentato in divisa da capitano mi consente di muovermi con una certa libertà per i vastissimi prati dei galoppatoi, fra i quali spiccano sei o sette querce, isolate, di fusto superiore ai m 4,50.
Mi accompagnano a vedere perfino il cimitero dei cavalli: qui i cavalli che non sono più in grado di correre vengono accuditi fino alla morte, poi vengono seppelliti con tanto di lapide di marmo che ne reca il nome. La cosa che mi appare strana (!) è il vedere che mancano le croci.
Il grande cerro è in una zona chiamata “Recinto dei daini”, una valletta prospiciente la Palazzina Comando, dove diversi di questi animali pascolano in piena liberta, all’ombra di grandi querce che non possono tuttavia competere con il gigante.
1990. Il libro sta per andare in stampa, ma dal Comando della Scuola mi fanno sapere che due fulmini hanno colpito il grande Cerro, danneggiandolo. Sono già maggiore e, in occasione di un viaggio di servizio da Firenze a Roma, torno a rivederlo e fare nuove foto. Il Cerro è ancora vivo, ma ridotto al fusto e a soli due grandi rami. Il libro, all’ultimo momento, fallisce la pubblicazione.
1998. Si riapre una possibilità di stampare il libro. Sono tenente colonnello. Effettuo un nuovo viaggio al Cerro: trovo solo un enorme moncone tagliato a due metri da terra dal quale fuoriesce un minuscolo ramo con ancora le foglie. L’interno del fusto è tutto marcio, sembra segatura compattata, solo una esile striscia esterna di pochi cm conduce ancora la vita. Mi spiega il comandante che hanno dovuto abbatterlo per il pericolo che potesse cadere su qualcuno. Il libro fallisce di nuovo la stampa.
2010. Sono in pensione da dieci anni. Trovato finalmente l’editore per il libro che si chiamerà ora “Alberi Monumentali del Lazio”, vi torno con il mio coautore Eno Santecchia per rifare le foto. Non c’è più nulla. I tagli imposti alla Difesa hanno fatto sì che tutta quella parte della Scuola venisse abbandonata. Non c’è più il recinto dei Daini, non ci sono più i daini, non si vede più neppure il moncone del Cerro. Tutto è tornato alla stato naturale, con un intricatissimo bosco di rovi e cespugli. In mezzo ad essi, solo due delle vecchie querce che tenevano compagnia al gigante, ormai agonizzanti, aspettano anch’esse la fine.

Valido Capodarca

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